"Tutto cambia al di là di queste mura.
Qui invece tutto resta uguale, cristallizzato. Siamo un baco che mai si trasformerà in farfalla"

Il baco e la farfalla

Un'incredibile storia vera

 Nuova edizione 2017

“Chi sta fuori non si rende conto. Il ritmo della loro vita è scandito dai loro problemi, non dai nostri. Il lavoro, la famiglia e tutto il resto. Un ritmo frenetico, una corsa affannosa senza un attimo di respiro. A loro il tempo manca, a noi avanza… tutto cambia al di là di queste mura. Qui invece tutto resta uguale, cristallizzato. Siamo un baco che mai si trasformerà in farfalla”
 


In questo mondo sono sempre i più deboli a pagare il prezzo più alto. Sono coloro che non possono volare ad essere presi ogni volta come capro espiatorio. E non volano non perché non vogliano, ma perché il fato o in molti casi qualcuno più potente ha spezzato loro le ali.

Guido si ritrova bambino con una madre da cercare e un padre da vendicare. Qualche anno dopo, poco più che adolescente, decide di fare i conti con un passato il cui peso si è fatto, col passare del tempo, insopportabile. Una scelta che lo porterà a scoprire molti lati oscuri della sua famiglia e che segnerà per sempre il resto della sua vita.

Premi e riconoscimenti:

Finalista Premio Internazionale di Letteratura Terre di Liguria 2012, 5° classificato al Premio Nazionale di Arti Letterarie Città di Torino IX ed. 2012, Menzione d’Onore al Premio Internazionale di Letteratura Portus Lunae 2012, 2° classificato al Premio Nazionale di Poesia e Narrativa Il Golfo 2013.

 

 acquista

On line (ebook e cartaceo):
Il baco e la farfalla su Streetlib
Il baco e la farfalla su Amazon

Oppure contattare via email l'autore: diegorepet[at]gmail.com 




leggi 

I primi 3 capitoli de "Il baco e la farfalla"

Ottobre 1943
“Si salverà, non si preoccupi. Il bambino non è in pericolo di vita. Fosse un adulto correrebbe qualche rischio, ma con la sua età è praticamente impossibile che non ce la faccia. Certo, i tempi di recupero saranno lunghi. Dalla poliomielite si guarisce con il riposo, più i muscoli lavorano più avanza la malattia. Per il momento non possiamo escludere dei danni permanenti. È possibile che non ci sia un pieno recupero della gamba malata, ma è troppo presto per dirlo. Mi raccomando, riposo. Il bambino deve restare a letto per almeno due mesi per evitare il rischio di una ricaduta”.
Il medico non era riuscito a tranquillizzarlo. Dai lineamenti contratti del viso traspariva una profonda inquietudine. Quando rimase solo nella stanza, si chinò su di me e mi accarezzò il viso. Mi sorrise.
“Papà, non andare via, resta con me”.
“Papà non se ne va, non temere. Promesso”.
Per i genitori la vita dei figli inizia quando nascono. Per i figli invece la propria vita inizia con i primi ricordi. Nella mia memoria nacqui in una stanza della clinica Bertani quando avevo cinque anni.
Nonostante la promessa - che cosa stupida promettere ciò che si sa già non poter mantenere - mio padre se ne andò presto. Era un comandante partigiano e non aveva tempo per prendersi cura di me, la Resistenza lo assorbiva completamente. Dopo l’operazione mi affidò alla madre di sua moglie. Pensava che in quella casa alla periferia di Genova sarei stato al sicuro. Al sicuro forse sì, felice no, ma non glielo confessai mai. Sapevo come avrebbe reagito, mi avrebbe detto di non fare il bambino viziato e che era per il mio bene.

Fin dai primi giorni i rapporti con la mia nuova tutrice furono tesi e ben presto arrivai a odiarla profondamente. Aveva cinquantacinque anni portati discretamente, ma ai miei occhi appariva solamente come una vecchia strega. Mi parlava sempre con un tono scontroso, ruvido. I suoi movimenti erano bruschi. Rimasi insieme a lei quattro anni eppure non ricordo un solo gesto di affetto nei miei confronti. Non un bacio, non una carezza, non un sorriso.
Durante la convalescenza il tempo trascorse lentamente. Le giornate erano lunghe e noiose. Restare a letto era una vera e propria tortura. La vecchia entrava nella stanza quattro o cinque volte al giorno. Non era certo per farmi compagnia, ma piuttosto per comprovare che non mi alzassi e non abbandonassi il luogo a cui la malattia mi aveva relegato. Al mattino, a mezzogiorno e alla sera mi portava qualcosa da mangiare. Alla fine di ogni pasto, mi accompagnava in bagno. Quando mi riaccompagnava in camera e prima di richiudere la porta, muoveva ritmicamente su e giù l’indice della mano destra e mi intimava minacciosa di restare immobile fino al suo ritorno.
La situazione precipitò quando, una volta guarito, iniziai ad andare a scuola. Il fatto che fossi mancino era per lei inaccettabile. I compiti del pomeriggio diventarono così un supplizio. Mi legava la mano sinistra allo schienale della sedia, si accomodava sulla poltrona e vigilava imperturbabile gli sforzi che facevo per scrivere con la destra. Alle mie lamentele rispondeva secca che era per il mio bene – certo dovevo considerarmi un bambino fortunato, tutti che si preoccupavano per il mio bene - declamava che una persona che si rispetti deve saper scrivere con la mano destra.

Trascorsi i primi due anni senza rivedere mio padre. Lo incontrai nuovamente in una giornata piovosa di fine aprile del 1945. Mi disse che la guerra era finita e che a partire da allora ci saremmo incontrati spesso. Veniva il fine settimana, ma non si fermava mai a dormire. Erano incontri brevi ma intensi. Riusciva con parole semplici a trasmettermi un po’ di quella dolcezza di cui ogni bambino ha bisogno e che a me mancava terribilmente, stretto com’ero tra gli artigli della mia tutrice. A volte mi passava a prendere e mi portava in montagna, sull’appennino ligure, a ripercorrere i luoghi della Resistenza. I racconti delle lotte partigiane mi sembravano favole meravigliose. Da un lato i buoni, i partigiani. Dall’altro i cattivi, i tedeschi e i fascisti. Storie di generosità, lealtà, coraggio. Storie di rappresaglie e crudeltà. Mio padre era senza dubbio un buon oratore. Quando iniziava a parlare fissavo lo sguardo sulle sue labbra, attento a non perdermi nemmeno una parola, completamente catturato e affascinato dal racconto. Ogni volta andavamo in un paesino diverso, se si possono chiamare paesi quelli che spesso non erano altro che quattro case di pietra mezze diroccate. Ma anche se si cambiava paese, ogni volta era presente una donna giovane e bella con la quale mio padre trascorreva gran parte del tempo. Molti anni dopo venni a sapere che era una ex partigiana e l’amante di mio padre. Nel paesino di turno restavo qualche giorno e quando dovevo tornare a casa piangevo disperato per ore.

Purtroppo ho una buonissima memoria. Ci sono molti momenti tragici della mia vita che vorrei poter dimenticare, mi piacerebbe gettarli per sempre nell’oblio. E invece mi ricordo tutto, nitidamente. A volte, se chiudo gli occhi, le immagini sono così definite che ho la sensazione di riprovare le stesse emozioni, di risentire lo stesso dolore, di essere colto nuovamente da quel senso di sconfitta e di ineluttabilità del destino che spesso mi hanno accompagnato lungo il tortuoso cammino della vita.

Nonostante le frequenti visite di mio padre, anche quelli furono anni difficili. Non c’era giorno che non litigassi con la vecchia. Le discussioni erano feroci e spesso scappavo in camera per sfuggire alla scopa. Mi chiudevo a chiave e mi gettavo sul letto, supino, fissando il soffitto e cercando di trattenere le lacrime. La mia capacità di estraniarmi era straordinaria. Riuscivo a non udire il rimbombare dei colpi sulla porta e le grida della strega che mi ordinava di aprirla, altrimenti, urlava, si sarebbero abbattute su di me le punizioni più terribili. Quando mi ritrovavo solo, sdraiato sul letto, c’era un gioco che mi piaceva fare. Chiudevo gli occhi e li stringevo forte fino a sentire i bulbi dolere, come risucchiati nell’orbita, poi di scatto li riaprivo e vedevo una moltitudine di puntini brillanti. Il soffitto della stanza si trasformava nel cielo di una notte stellata. E ripensavo alle notti trascorse in montagna con mio padre, quando l’oscurità calava sul paese, quando in cielo si accendevano gradualmente le stelle e brillavano poi di una luce intensa. E dicevo a mio padre che quelle stelle erano più belle e più luminose di quelle della città. E gli domandavo come mai in quel cielo ci fossero molte più stelle che in quello sopra la città. E non gli credevo quando mi spiegava che si trattava delle stesse stelle, che non erano più luminose, che era il buio che le circondava che le faceva apparire più brillanti. È il contrasto dei colori, mi diceva con dolcezza, quando mangi gli spaghetti e ti schizza la salsa di pomodoro addosso, la macchia si vede molto di più su una maglietta bianca che su una rossa. Anche se la pasta mi sembrava che c’entrasse poco con le stelle, avevo l’impressione di aver capito.
Quando pensavo a mio padre ero assalito dalla nostalgia. E ancor di più dopo le fughe in camera. Pur avendo condiviso con lui poco tempo, ne serbavo un ricordo vivo e associavo alla sua immagine i pochi momenti belli della mia vita.


Maggio 1947
Fu un quattro di matematica che cambiò radicalmente la mia infanzia. L’anno scolastico stava per finire, era la resa dei conti e un brutto voto sarebbe stato difficilmente rimediabile. Tanto mi piaceva studiare italiano e letteratura, quanto poco mi entusiasmava la matematica. Allora mi sembravano solamente concetti astratti e inutili e impiegai parecchi anni per rendermi conto che una mente scientifica e una certa familiarità con numeri e operazioni possono aprire molte porte e rendere più facile la vita. Bastava leggessi una volta le poesie e le imparavo a memoria. Pascoli, Leopardi, Carducci, mi piacevano tutti. Con i numeri, invece, non c’era niente da fare. Spesso la sera, quando non riuscivo ad addormentarmi, invece che contare le pecore recitavo le poesie a voce alta, ottenendo però l’effetto contrario. In compagnia di ermi colli e cavalline storne potevo restare sveglio per ore.

Tornai a casa e lungo il cammino immaginai con apprensione la reazione della vecchia strega alla notizia del brutto voto rimediato nell’ultima prova scritta di matematica. Giunto a casa, la temuta domanda non si fece attendere.
“Come è andata a scuola? Come è andata la prova di matematica?”.
Avrei voluto mentire, ma sapevo che era inutile perché sarei stato scoperto in seguito con conseguenze ben peggiori. 
“Male. Quattro”. Furono le uniche due parole che mi uscirono di bocca.
“Sei il solito disgraziato!” urlò sollevando in alto le mani. “Sei un cavallo pazzo! Ecco, questi sono i risultati della tua testardaggine, con tutti i sacrifici che fa mia figlia per te!”.
La compagna di mio padre passava a trovare la madre una volta alla settimana. Con me non si tratteneva mai più di dieci minuti nei quali mi rivolgeva le solite domande, come stavo, come andava la scuola, come andava con la “nonna”, ricevendo in cambio le solite bugie, andava sempre tutto a meraviglia.
“Sacrifici? Quali sacrifici?” domandai stupito.
La risposta giunse tagliente, riaprendo una ferita mai del tutto rimarginata.
“Almeno lei non ti ha abbandonato, come tua madre”.
Sbattermi in faccia ciò che per me era una dolorosa e insopportabile verità fu la goccia che fece traboccare un vaso già colmo. Non avrei trascorso un solo giorno di più in quella casa.
Andai in bagno e sfilai la chiave dalla toppa, mi sedetti sul divano e iniziai distrattamente a sfogliare un libro in attesa del momento propizio. Quando la vidi dirigersi verso il bagno, strinsi la chiave tra le dita. Aspettai che chiudesse la porta, mi alzai di scatto dal divano e un istante dopo l’avevo già chiusa dentro. Incurante delle grida che giungevano dall’interno, corsi verso l’ingresso e un istante dopo stavo correndo in strada, felice, verso una libertà che avevo sognato per quattro lunghi anni. Mentre correvo – una corsa buffa, caricando più sulla gamba sinistra che su quella destra, ricordo indelebile della malattia - pensavo al momento in cui avrei riabbracciato mio padre. Ero sicuro che avrebbe capito e avrebbe accettato che ritornassi a vivere insieme a lui. Erano tre mesi che non andavo a casa di mio padre. L’ultima volta che ci eravamo riuniti tutti insieme era stato il giorno del suo compleanno. In quell’occasione avevo rivisto anche Elisa, la figlia che aveva avuto con la sua nuova compagna. Aveva due anni in meno di me e viveva insieme ai nonni paterni. La incontravo raramente, quasi sempre in occasione delle festività, e ogni volta mi stupivo di quanto fosse cresciuta durante i mesi in cui non ci eravamo visti. Era come incontrare ogni volta una persona nuova.

“Papà, non voglio più vivere con quella vecchia strega, non ce la faccio più, è un inferno!”. 
Non rispose. Mi lanciò uno sguardo severo, di rimprovero. Non era d’accordo con la mia fuga. Erano gli anni duri dell’immediato dopoguerra, quelli delle vendette tra vinti e vincitori, quando i morti erano all’ordine del giorno e sembrava che la guerra non fosse mai finita. Mio padre era noto per le sue idee comuniste e riceveva in continuazione minacce di morte. Non si fidava a farmi vivere insieme a lui sotto lo stesso tetto. Rimase in silenzio a guardarmi per un tempo che mi sembrò infinito, poi mi fece cenno di avvicinarmi, mi cinse le spalle con un braccio e con la mano iniziò ad accarezzarmi dolcemente la testa.
“Va bene. Ma non pensare che qui sarà il paradiso. Continuerai ad andare a scuola e dovrai imparare a badare a te stesso. Sono molto impegnato, lo sai, e non potrò stare molto tempo insieme a te. Non sarà facile. Te la senti?”. 
Annuii sorridente. Ma in realtà non sapevo bene ciò che mi aspettava. 

Il periodo più duro da superare fu quando finì l’anno scolastico. Era trascorso appena un mese da quando ero ritornato a vivere con mio padre. Finita la scuola, le mie giornate scorrevano lente e monotone. Mio padre usciva sempre presto al mattino e rientrava la sera tardi. Non dimenticava mai, prima di uscire, di prepararmi sul tavolo un paio di fette di pane con la marmellata. Mi alzavo tardi, mi piaceva restare a letto a fantasticare immaginandomi battaglie tra supereroi misteriosi e mostri tanto brutti quanto cattivi. A volte, quando i mostri erano particolarmente crudeli e sadici, mi capitava di ripensare alla vecchia strega e mi venivano i brividi al solo pensiero che avrei potuto in futuro rivederla. Dopo la colazione, iniziavo a vagare per la casa, un pellegrinaggio senza meta in cui le varie stanze venivano visitate senza un ordine predeterminato. La porta d’ingresso dava su un ampio vano che faceva apparire la casa più grande di quanto in realtà fosse. Situate ai quattro angoli della sala si trovavano le porte di accesso alla cucina, al bagno e alle due camere da letto. 
Quando mi veniva fame, di solito piuttosto presto, uscivo per comprare qualcosa con le poche centinaia di lire che mio padre mi lasciava ogni due o tre giorni sul tavolo. Pane, latte, mais, riso e pasta non mancavano quasi mai. Una volta alla settimana mi potevo permettere un po’ di frutta e verdura, il pesce invece ogni quindici giorni, la carne non più di una volta al mese e solamente se il prezzo era inferiore alle cinquecento lire al chilo. I negozi desolatamente vuoti non erano un bello spettacolo, ma ero troppo piccolo per fermarmi a riflettere sulle drammatiche conseguenze della guerra. A me piaceva fare la spesa, quello che si trovava, e mi intrattenevo sempre più del necessario. Era l’unico momento della giornata in cui potevo scambiare due parole con qualcuno. Alberto il panettiere, Maria la fruttivendola, Mario il macellaio, Trieste la pescivendola, che era nata due giorni dopo la fine della prima guerra mondiale. Erano la mia famiglia. 
“Ciao Guido, come va?“. 
“Bene. E lei signor Alberto?”. 
“Ah, i soliti dolori. È la dura legge dell’età, figliuolo. Sai , si dice che uno ha gli anni che si sente, ma non è mica vero. Io di spirito mi sento come se avessi vent’anni, andrei a ballare tutte le sere, ma vaglielo a dire alla mia schiena... a lei non gliene frega niente del mio spirito e sa benissimo che fra tre settimane sulla torta ci saranno sessantacinque candeline! È da quando avevo dodici anni che faccio questo mestiere e mi sveglio ogni giorno alle tre del mattino, quando il resto del mondo sta ancora sognando. Smetterei volentieri, ma non posso, con la pensione che mi darebbero morirei di fame”. 
“Non smetta per favore, il pane buono come lo fa lei non lo fa nessuno” lo supplicai sincero. 
Nonostante la solitudine, non mi sono mai pentito di essere ritornato a vivere insieme a mio padre. Ancora oggi però vengo assalito ogni tanto dal rammarico per aver rinunciato, in seguito a quella scelta, a un’infanzia priva di responsabilità. Un’infanzia normale che non ho potuto vivere per essere stato costretto dagli eventi a crescere troppo in fretta. 

A settembre iniziai nuovamente ad andare a scuola. Quell’anno frequentavo la quinta elementare. La sera precedente il primo giorno di scuola, mio padre entrò nella mia stanza, si sedette sul letto vicino a me e guardandomi serio negli occhi mi disse lentamente e scandendo le parole, come ogni qualvolta che doveva dirmi qualcosa che non doveva entrare da un orecchio e uscire dall’altro: 
“È importante che tu vada a scuola. Devi ritenerti fortunato per poterlo fare. Il mondo è pieno di gente cattiva, che se ne approfitta dei più deboli. E gli ignoranti sono deboli, nella vita perdono sempre. Devi studiare. Devi arrivare a sapere per poter giudicare. Per avere una tua opinione e non far tua quella di coloro che sono più convincenti di altri. Ma soprattutto per non essere indifferente. L’indifferenza è abulia, parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. È la morte della storia”. 
Era proprio un partigiano convinto. 


Settembre 1948
“Allora? Sei pronto? Dai che voglio passare dal barbiere prima di andare dal sarto”.

Si allacciò l’ultimo bottone della camicia, prese una cravatta dal cassetto e si fece il nodo guardandosi allo specchio. Con il palmo della mano si sistemò una ciocca ribelle. Diede un’ultima sistemata alla cravatta e rimase qualche secondo a fissare la sua immagine riflessa. Poi si volse verso di me.
“Fatti vedere”.
Mi avvicinai e restai dritto in piedi di fronte a lui, le mani lungo i fianchi, il mento leggermente sollevato. Nonostante fosse sabato mi aveva fatto indossare il vestito della domenica. I pantaloni corti beige, la camicia bianca e il gilet testa di moro.
Erano già trascorsi cinque anni dall’armistizio. Nel frattempo l’Italia era diventata una Repubblica e in primavera la Democrazia Cristiana aveva vinto le prime elezioni, ma il giorno in cui era stata firmata la pace con l’Inghilterra e gli Stati Uniti era particolarmente sentito da mio padre e come ogni anno, dalla fine della guerra, si sarebbe riunito con tutti gli amici più cari. Ci teneva a fare bella figura. Non doveva apparire che stavamo attraversando un brutto momento dal punto di vista economico. Non voleva essere compatito, non voleva gli venissero offerti dei soldi. Non ne aveva mai chiesti in prestito e ne andava fiero.
“Lavati i denti e andiamo”.
Andai in bagno per eseguire quello che più che un invito era stato un ordine. Quando uscii dal bagno stava indossando il cappotto. Non faceva freddo, ma la tasca interna era un buon posto per nascondere la pistola. Sapevo che mio padre girava armato. Un giorno lo avevo sorpreso mentre riponeva la pistola tra le camicie in un cassetto. Questa non la devi toccare, mai, per nessuna ragione, mi aveva detto serio, frustrando sul nascere la mia curiosità.
Uscii contento, accompagnato dal ricordo dell’anno precedente in cui la giornata era trascorsa tra i ricordi e le battute dei compagni di mio padre. Mi divertiva sentirlo chiamare con il nome di battaglia, Cesare. Non mi ero perso nemmeno mezza parola dei loro discorsi, girando la testa da una parte all’altra come se stessi assistendo alla finale del torneo di Wimbledon.
Andammo al bar, dove ci stava aspettando suo fratello. Non si assomigliavano per niente. La domanda più ricorrente che veniva loro rivolta in tono scherzoso era se fossero sicuri di essere entrambi figli dello stesso padre e della stessa madre. Solitamente lo zio era molto affettuoso, generoso di buffetti e carezze sulle guance e sulla testa. Quel giorno invece, quando entrammo nel bar, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Era visibilmente nervoso, sembrava avesse fretta, come se avesse un appuntamento con qualcuno. Ordinarono un caffè. Mio padre si mise a sfogliare il giornale.
“Senti, vai dal barbiere prima di passare da Lollo?”.
“Sì, ma prima devo passare dal sarto, questo cappotto proprio non ce la fa più. Perché?”.
“No, niente. Magari vi accompagno, così sto con Guido”.
Ah, ma allora sa che esisto, pensai con sollievo.
“Non è necessario, ma se ti fa piacere...” disse mio padre distrattamente, continuando a leggere.
“No! Hanno arrestato Ninetto!” esclamò all’improvviso. “Ti rendi conto della situazione di merda che si è creata? Che schifo... prima eravamo gli eroi, i salvatori della patria, ora ci trattano come sovversivi. Dicono che mettiamo in pericolo la democrazia appena nata. E la stampa dà credito a qualsiasi menzogna, è incredibile. Un qualsiasi maresciallo dei carabinieri, uno che non si sogna nemmeno cosa sia lottare per la democrazia... io non sopporto la gente così, di quelli che gli va bene tutto. C’è il fascismo? Bene. Il fascismo viene sconfitto? Bene lo stesso. C’è la monarchia? Bene. L’Italia diventa una Repubblica? Bene lo stesso. Ma come cazzo fa ad andargli sempre bene tutto? Non ce l’hanno un’idea su come dovrebbero andare le cose, un’opinione su cosa è giusto e cosa no?.... Beh, uno di questi si sveglia una mattina e dice che tizio è un sovversivo e la notizia esce sui giornali. E quando esce sui giornali.... stac... hai appiccicata sulla fronte l’etichetta e togliersela diventa quasi impossibile”. Aveva accompagnato la parola etichetta colpendosi la fronte con il palmo della mano. Continuò: “Ah, e la sai l’ultima. Girano voci che vogliano arrestare anche me, credono che sia il responsabile dell’attentato contro la caserma di Pegli. Piuttosto che farmi dei giorni di galera da innocente mi faccio ammazzare”. E istintivamente appoggiò la mano sul cappotto, all’altezza della tasca interna.
“Dovresti invece evitare di rispondere alle ingiustizie con la violenza” lo ammonì il fratello. “Non ne vale la pena, e poi se sei innocente.....”.
“Se sei innocente sei tranquillo” lo interruppe mio padre con sarcasmo, e aggiunse, nel caso non fosse stata colta l’ironia delle sue parole: “Non gliene frega niente se sei innocente o colpevole”.
Mi stavo annoiando. Non capivo i discorsi che facevano. E poi nel bar c’era un’aria irrespirabile, una cappa di fumo denso che avrebbero dovuto mettere un cartello - se ti alzi dalla sedia e non vedi il bancone, cammina con prudenza.
Fui contento così quando mio padre ripiegò il giornale, lo appoggiò sul tavolo e si alzò. Scattai dalla sedia e lo anticipai all’uscita.

La moglie del sarto ci invitò ad entrare. Offrì a mio padre e allo zio un caffè che rifiutarono educatamente.
“La ringrazio, lo abbiamo appena preso al bar”.
Il laboratorio era stato ricavato in una stanza dell’appartamento. Su un grosso tavolo di legno troneggiava la macchina da cucire. C’erano pezzi di stoffa ovunque, camicie e pantaloni ammucchiati sulle sedie e su un divano. Mi domandai come facesse a trovare le cose in mezzo a quel disordine. Il sarto ero un tipetto basso e magro che non perdeva occasione di ricordare al mondo intero quanto fosse bravo a fare il suo mestiere.
“Venga, ecco, si tolga questo cappotto sdrucito che gliene faccio uno su misura, uno che così bello non l’ha mai visto, talmente bello ed elegante che per strada la gente si volterà ad ammirarlo”.
Aiutò mio padre a togliersi il cappotto vecchio e lo gettò sopra una montagna di vestiti. Da un cassetto estrasse un metro e iniziò a misurare braccia, torace, vita e gambe di mio padre. Ripeteva ad alta voce i numeri e li annotava su un bloc notes.
“Mi creda, sarà il cappotto più bello che abbia mai avuto, le calzerà a pennello. La stoffa la sceglierà poi con mia moglie. Ma il segreto del successo sta tutto qui” e indicò il foglietto su cui aveva scritto le varie misure. “Un centimetro in più o in meno fa la differenza. Certo, poi bisogna saper rifinire le cuciture, ma delle buone misure sono come le fondamenta di una casa, reggono tutto il resto”.

Erano trascorsi almeno dieci minuti quando mio padre guardò l’ora senza dire niente, sperando che il sarto capisse che aveva fretta. Negli anni trascorsi insieme ho sempre avuto l’impressione che mio padre avesse fretta, che non potesse mai fermarsi per rilassarsi un po’. Aveva sempre qualcosa da fare e si lamentava in continuazione che per lui il tempo scorreva troppo velocemente. Quella mattina stranamente anche lo zio era teso e passeggiava avanti e indietro per la stanza, fermandosi di tanto in tanto per osservare prima il sarto, poi il fratello. Gli aveva detto che lo accompagnava per stare insieme a me, ma fino a quel momento non mi aveva rivolto la parola nemmeno una volta. Indifferente alla sua indifferenza, girovagavo incantato per la stanza toccando con curiosità i vari tessuti. Quel luogo caotico e colorato mi intrigava.
Afferrai un paio di forbici che spuntavano da sotto un cumulo di stoffa rossa e chiesi se potevo tagliarne un pezzettino.
“Certo ragazzino, ma fai attenzione a non farti male”.
“Possibile che non puoi stare fermo un attimo?” sospirò mio padre.
Non lo ascoltai e tagliai una lunga striscia rossa che mi allacciai intorno alla fronte.
“Ecco, un’ultima misura ancora e.... fatto! Mia moglie le mostrerà il catalogo. Il mio consiglio è un grigio scuro, ma stoffa e colore spettano a lei. In ogni caso sono sicuro che farà un’ottima scelta. Passi verso la fine della prossima settimana, il suo magnifico cappotto la starà aspettando ansioso di essere indossato”.
Dopo un po’ la sua loquacità diventava irritante.
Mio padre impiegò meno di cinque minuti per decidere la stoffa e il colore. Ringraziò e salutò la moglie del sarto, dopodiché uscimmo dirigendoci dal barbiere.

Mio padre e mio zio camminavano svelti discutendo animatamente. Li seguivo a un paio di metri, saltellando sulle punte dei piedi attento a non pestare le linee tra una pietra e l’altra del marciapiede. Iniziò a piovigginare e arrivammo dal barbiere un attimo prima che si scatenasse il diluvio. C’erano un paio di persone in attesa del loro turno e altrettante che avevano trovato un improvviso riparo dalla pioggia.
“Una mezz’oretta” rispose il barbiere a mio padre che si era informato su quanto tempo avrebbe dovuto aspettare.
“Vado. Devo comprare il pane e l’insalata prima di tornare a casa per pranzo, se vuoi continuare ad avere un fratello. La conosci tua cognata, sai com’è” disse ridendo lo zio dopo una decina di minuti. Poi, diventando improvvisamente serio, aggiunse: “Ci sentiamo. Mi raccomando, fai attenzione”.
“E a che? Tu piuttosto, occhio che non ti becchi un fulmine” gli fece eco mio padre con ironia, interrotto da un tuono.
“Ciao Guido”.
“Ciao” lo salutai senza voltarmi, intento com’ero nel raccogliere a mucchietti con i piedi le ciocche di capelli sparse sul pavimento.

Finalmente fu il turno di mio padre. Il barbiere lo fece accomodare sulla sedia, gli mise sul petto un asciugamano bianco, glielo annodò intorno al collo e iniziò a spennellargli di schiuma le guance, il mento e il collo. Prese il rasoio e con movimenti rapidi e sicuri incominciò a tagliargli la barba. Una strisciata sul viso, una sull’asciugamano appoggiato sull’avambraccio per pulire la lama. Una sul viso, una sull’asciugamano. Lo scorrere della lama affilata sulla pelle senza che si producessero tagli mi lasciava esterrefatto. Una volta terminata la barba, passò ai capelli. Le forbici nella destra, il pettine nella sinistra, movimenti secchi, repentini. Seguiva uno schema, era evidente, nessuna sforbiciata era casuale, e alla fine mio padre, guardandosi nello specchio, si disse molto soddisfatto.
“Ottimo lavoro, come al solito”.
Pagò e ce ne andammo.

Pioveva forte, il cielo era diventato improvvisamente buio. I bagliori dei lampi squarciavano l’oscurità e illuminavano le nuvole gonfie. Ad ogni rimbombo dei tuoni ero scosso da un tremito lungo tutto il corpo. Mio padre mi prese la mano.
“Vieni, stammi vicino che se no ti bagni. Occhio alle pozzanghere” e mi tirò leggermente a sé in modo che entrambi fossimo al riparo sotto l’ombrello.
Facevo fatica a mantenere il suo passo. A metà di via Cantore svoltammo in via Rosselli. Lo scrosciare incessante della pioggia non accennava a diminuire. Avevo ormai i piedi fradici e rinunciai ad evitare le pozze d’acqua, già facevo fatica a restare dietro a mio padre.
“Guarda sta arrivando il 2, dai che lo prendiamo” e accelerò ancor di più l’andatura in direzione della fermata.
Stavamo per salire sul filobus quando qualcuno chiamò mio padre. A meno di due metri da noi, fermo sul marciapiede, un uomo avvolto in un impermeabile nero ci stava osservando. Mio padre lo squadrò con aria interrogativa, senza dire nulla.
“Mi segua, senza fare sciocchezze” disse mostrandogli un distintivo dei carabinieri.
Fu un attimo. Un istante che segnò il resto della mia vita. Così fulmineo che non mi resi conto di cosa stesse accadendo. Ma le tragiche immagini e la colonna sonora si impressero in modo indelebile nella mia memoria. Mio padre che mi allontana con uno spintone. La sua mano che slaccia un bottone del cappotto e ci si infila dentro. Uno sparo sordo. Il braccio teso dell’uomo con l’impermeabile nero. Il fumo denso che fuoriesce dalla canna di una pistola. Mio padre che si accascia sul marciapiede. L’acqua intorno al corpo che lentamente si tinge di rosso. Le urla delle persone presenti. L’ululato continuo e assordante della sirena dell’ambulanza. Immagini e suoni che hanno sempre avuto una duplice funzione: farmi rivivere al rallentatore la morte di mio padre e alimentare negli anni a venire un crescente desiderio di vendetta.

Un medico provò invano a rianimarlo. Quando arrivammo all’ospedale era già morto. Lo avevano ammazzato davanti ai miei occhi. A coloro che si avvicinavano per cercare di confortarmi domandavo in lacrime sempre la stessa cosa: “Perché?”.
Per la prima volta nella mia vita mi sentii completamente solo. Solo a combattere contro un destino crudele. Avevo la sensazione di non meritarmi ciò che mi era accaduto. Perché mia madre mi aveva abbandonato? Perché avevano sparato a mio padre? Perché gli altri bambini avevano genitori e nonni che si prendevano cura di loro e io invece non avevo nessuno? Perché?

Venni affidato nuovamente alla mia vecchia tutrice. Ma questa volta, per fortuna, la convivenza durò appena un paio di settimane. La vecchia infatti decise di mandarmi in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Fondato da un ex tenente degli alpini con lo scopo di accogliere ragazzi con una situazione famigliare difficile e permettere loro di proseguire gli studi, era passato poi sotto il controllo di una fondazione svizzera che aveva nominato un nuovo direttore, proveniente da Roma, il Dr. Tatarella. Gattasso, il fondatore, aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli e con il trascorrere degli anni si era indebitato fino al collo. Le minacce sempre più frequenti dei creditori lo avevano costretto, a malincuore, a cedere sia la proprietà che la gestione di quella che sarebbe diventata la Casa Svizzera. In realtà, l’edificio e il luogo in cui sorgeva non avevano niente a che vedere con il piccolo stato alpino. Era stato costruito in perfetto stile coloniale a due passi dal mare. Era una palazzina a tre piani dello stesso giallo di cui si tingono gli occhi in un bosco di castani al principio dell’autunno. Il piano terra, dove erano situate una grande sala da pranzo e la cucina, era circondato esternamente da un porticato formato da esili colonne di marmo. Sopra al porticato era stato ricavato un ampio terrazzo al quale si poteva accedere da tutte le camere da letto che occupavano, insieme ai bagni, l’intero secondo piano. La mansarda era utilizzata come ripostiglio. Nessuno, a parte il direttore dell’istituto, aveva il permesso di entrarvi e il fatto che l’accesso fosse sempre chiuso a chiave aveva fatto nascere leggende e miti su ciò che accadeva dietro quella pesante porta di legno. La sola minaccia di essere rinchiusi per punizione in quel luogo circondato dal mistero era più che sufficiente per evitare qualsiasi comportamento che non rispettasse le regole vigenti all’interno della casa. L’arredamento della casa era semplice ma curato. Era evidente che non ci fosse spazio per il superfluo. In ciascuna stanza erano alloggiati due ragazzi. I servizi e le docce erano in comune per tutti gli inquilini, con l’esclusione del direttore che aveva una stanza con il bagno privato.

Il primo novembre la tutrice mi accompagnò all’istituto. Il mio unico bagaglio era costituito da una vecchia valigia di cuoio scuro con dentro pochi vestiti, un quadretto con una foto di mio padre, il sussidiario, lo spazzolino da denti, un camioncino di legno. Arrivati al cancello si fermò e appoggiandomi una mano sulla spalla mi ruotò verso di lei.
“Su, ora vai, il direttore ti sta aspettando. Comportati bene. Ti verrò a trovare ogni tanto”.
Attraversai il cancello e giunto di fronte al portone mi voltai un’ultima volta verso la vecchia e accennai un saluto con la mano. Poi suonai il campanello e rimasi in attesa. Ero emozionato e un brivido mi attraversò la schiena. L’uomo che mi aprì mi sorrise e l’ansia che mi aveva colto all’improvviso svanì in un istante.
“Tu devi essere Guido, vero? Vieni, entra, sei il benvenuto”.
Non ero abituato a tanta cordialità. Ma abituarsi alle cose belle è un attimo e mi sentii subito a mio agio, come se quel posto, invece che essermi ignoto, lo conoscessi da sempre.

A volte la prima impressione è quella giusta. L’istituto accoglieva ragazzi di età compresa tra gli undici e quindici anni. Data la mia situazione particolare, mi era stato concesso l’ingresso qualche mese prima che compissi l’età minima per l’ammissione. Diventai presto la mascotte dell’istituto e tutti, direttore e personale compresi, mi trattavano con un occhio di riguardo. In meno di anno recuperai il sorriso e dai miei occhi svanì il velo di malinconia che era apparso dopo la morte di mio padre. Vengo colto da un pizzico di amarezza se penso che, nonostante fosse un istituto per ragazzi cosiddetti “difficili”, mai più in futuro nel mondo “normale” mi sarebbe risultato così facile tessere buone relazioni e sincere amicizie come quelle che nacquero nella Casa Svizzera.

Trascorsi i primi tre anni sentendomi a casa.

Nessun commento:

Posta un commento